GUIDO ANGELINO

L'Europa alla ricerca di una lingua comune.

«L'Idea Liberale», Organo del Centro Studi dell'Idea Liberale - Milano
     N. S. - Fasc. III - Nov. Dic. 1988.

    

    «Quel che ha facilitato la cultura del Medioevo e l'espansione fantastica delle Università, è che allora si usava una lingua internazionale, la lingua dei chierici, il Latino, albero rigoglioso della comunicazione al centro del Medioevo. Oggi non c'è più il Latino. Ed è anche inutile far prevalere una lingua sull'altra. Certo, dobbiamo tenere conto dell'importanza che ha assunto l'inglese nel mondo. Ma per l'Europa «della materia grigia» è fondamentale far circolare tutte le lingue.
     Occorre che le scuole delle nazioni si strutturino in modo nuovo, al fine di far imparare ai loro figli tutte le lingue europee fondamentali. L'Europa può inventare il nuovo, anche per intendersi, per parlarsi. Ma deve basarsi sulla propria eredità. Ed ogni lingua - l'inglese, il tedesco, il francese, l'italiano, il portoghese, lo spagnolo, il greco - veicola un'enorme eredità culturale, che dobbiamo rendere operante. Come? Rafforzando la presenza delle lingue nei programmi d'istruzione di tutte le scuole.» (M. A. Macciocchi, Di là dalle porte di bronzo, Mondadori, 1987, pag. 76)
     Sono parole del professore della Sorbona Jacques Le Goff a Maria Antonietta Macciocchi, una delle intellettuali italiane più colte, parole che affrontano il problema del pluralismo linguistico dell'Europa, l'ostacolo forse più ingombrante per raggiungere un'autentica unità europea, culturale e spirituale.
     C'è in esse una frase lapidaria che mi lascia perplesso: «Oggi non c'è più il Latino».
     E se invece il Latino avesse già cominciato a rinascere, e se, quasi miracolosamente, oggi fosse già presente sulle labbra dei loquentes Latine, cioè di quella legione di Europei, tedeschi italiani francesi belgi polacchi ungheresi finnici... (legione che sta irrefrenabilmente accrescendosi), i quali riescono a intendersi limpidamente tra loro, usando la gran lingua di Roma?
     Ma qui bisogna fare una precisazione.
     Oggi, quando si dice Latino, si corre col pensiero a quel prodigio di architettura e di eleganza che è il Latino dei massimi prosatori, di quegli autentici strateghi della lingua di Roma, quali Cicerone, Cesare, Livio, Tacito, Latino solenne, spesso arduo e labirintico.
     È naturale che chi pensi a un simile Latino, si chieda con un sorriso divertito come si possa pensare al Latino come linguaggio comune, come lingua veicolare tra gli Europei.
     Ma se si pensa a un Latino di lineare struttura, ignaro di inversioni ed eleganze, Latino che non si proponga di porre caparbiamente i verbi in fondo al periodo (tecnica di cui si faceva gioco già Seneca (Quid de illa [compositione] loquar, in qua verba differuntur et diu exspectata vix ad clausulam veniunt? [Ep. 114, 16]. Si noti quel saporoso diu expectata), Latino che invece segua rigorosamente le leggi della grammatica e della sintassi Latina, ecco che l'idea di un sermo Latinus colloquialis come lingua comune europea comincia ad apparire praticabile.
     Se poi ci si guardi attorno, oggi, in Europa, ci si accorgerà che tale idea è già in atto, da tempo.
     L'iniziativa è partita da Saarbrücken, dove un valente professore universitario, dottissimo latinista, il benedettino P. Caelestis Eichenseer, ha lanciato, ed attuato, l'idea dei Seminari Latini.
     Tre, quattro volte l'anno, un gruppo di fautori del Latino vivo (professori, studenti, cultori della lingua di Roma) si raccolgono in qualche antico Convento o Castello o Sede Culturale, e quivi trascorrono una settimana quasi di ferie, parlando solo Latino.
     S'intende che nelle primissime ore, chi si è saziato per anni solo di letture e di interpretazioni dei Classici, non sa che balbettare qualche modesta frase Latina, ma presto, anche guidato dall'esempio di chi il Latino vivo già lo sa usare con disinvoltura, si accorge con stupore e tacita commozione, di cominciare a diventare un civis Romanus, che riesce ad esprimersi, anche se con cauta lentezza, nella lingua di Roma.
     L'esempio del prof. Eichenseer è stato presto seguito dall'eccezionale linguista P. Suitberto Siedl, viennese, professore di ebraico all'Università di Strasburgo, conoscitore di una dozzina di lingue sia del ceppo neolatino, sia di quello germanico e slavo, che ha raccolto (e continua a raccogliere) attorno a sé, due volte l'anno, gruppi di innamorati del Latino vivo per le cosiddette Ferie Latine, ora in Austria, ora in Francia, in Jugoslavia, ora in Italia, Feriae latinae che, come i Seminaria eichenseriani, attuano il miracolo della rinascita del Latino come lingua viva.
     Stanno poi sorgendo, un poco dovunque per l'Europa, Circoli Latini, i cui membri si radunano, a date fisse, a mescere in allegria vini, a gustare paste e a conversare in Latino, con realizzazioni di brevi spettacoli e di brevi conferenze su argomenti di attualità, svolte in un piano e trasparente Latino.

     Ma, si dirà, un Latino così lineare, così esile, così inornato, come quello usato in questi incontri di latinisti vivi, non sarà piuttosto una specie di Latino maccheronico?
     Qui occorre avere le idee chiare. Il Latino maccheronico (sia quello di raffinata fattura, come, ad esempio, quello di Teofilo Folengo, dagli esametri metricamente perfetti del Baldus, sia quello popolaresco, tipo

cur, quare, quia, fuerunt la rovina mia -
cur, quia , quare, fecerunt me arare -
quia, quare cur, fecerunt me sonare tambur)

è un'allegra e folle mistura di Latino classico e di termini tolti dall'italiano e dai dialetti e umoristicamente latinizzati: si veda, ad esempio, dal Baldus:

Quo fugis? Unde venis? Quis facit te ire galoppum? (111, 382)

0 macaro, macaro, quae te mattezza piavit? (IV, 285)

Exspectant pivae danzam quis chiamet un'altram (VII, 228)

Facilis cosa est descendere bassum,
sed tornare dretum, bracas bagnare bisognat (XXII, 54-55)

     Il Latino maccheronico nasce dunque da un'esigenza puramente comica, con un preciso fine umoristico. Profondamente diverso è invece il Latino di noi latinisti vivi, che, come ho già osservato, si impone un rigoroso rispetto delle strutture morfologiche e sintattiche del Latino classico e che, in luogo del labirintico e raffinato ordo verborum degli Autori classici, si propone una struttura lineare e spontanea, quale la mentalità cartesiana di oggi richiede.
     Chi scriva: «Si unusquisque hodie cogitaret minus de suis rebus et magis de rebus communibus, vita civilis esset hodie multo humanior» forma un periodo di tipo colloquiale, ma di assoluta legittimità Latina; volendo invece classicheggiare, scriverebbe: «Si minus de suis quisque rebus, ac magis communibus de rebus cogitaret, multo humanior hodie exsisteret vita».
     C'è poi un'altra obiezione, che mi è stata fatta in un incontro tra professori di Latino: «Ma l'uso di questo vostro Latino così terra terra, senza un minimo di concinnitas e di eleganza, non vi contaminerà in modo irreparabile, così da rendervi sordi e ciechi dinanzi alla squisita e complicata bellezza dei Classici?»
     Ho risposto interrogando a mia volta se i nostri studenti liceali, per il fatto che parlano spesso un italiano grezzo e impreciso, mescolato di termini stranieri, italiano che sta eliminando disinvoltamente il congiuntivo, divengano per questo sordi e ciechi dinanzi alla purità, all'eleganza, alle raffinatezze strutturali dei grandi Classici Italiani che commentiamo loro in classe. Anzi, proprio dal contrasto e dall'urto delle due lingue, meglio e più acutamente avvertono l'aristocratica e molteplice bellezza delle pagine dei nostri grandi Scrittori.
     Così l'uso del nitido Latino colloquiale non solo non offusca ai latinisti vivi l'architettonica e musicale bellezza delle pagine dei Classici Latini, ma ne rende più acuta e consapevole la fruizione.

     C'è tuttavia un grosso ostacolo che sembra porsi di traverso contro l'attuazione di un semplice e accessibile Latino colloquiale, che possa porsi come linguaggio di comunicazione europea.
     Come potrà essere espresso in Latino tutto lo sterminato numero di realtà nuove che tecnologia, evoluzione spirituale ed evoluzione civile hanno offerto alla società di oggi, di cui quindi mancano gli equivalenti Latini?
     Rispondo che una cospicua parte di questi neologismi, di cui si sono arricchiti i nostri linguaggi moderni, è composta di termini Latini e greci, termini che, ripresa, quando occorra, la loro ortografia classica, sono già pronti per essere immessi nella corrente del Latino vivo.
     Eccone, come esempio, un gruppetto:
     Helicopterum, hydròvora, telescopium, neoplasma, electromagneticus, televisio, isotopus, photogramma ... Ridare vita a questa innumerevole schiera di termini greco-latini, inserendoli nel nostro Latino vivo, non è che dare a Cesare ciò che è di Cesare.
     E poi, una pattuglia di squisiti latinisti, dotati non solo di profonda preparazione linguistica, ma pure di genialità creativa e di una specie di sesto senso Latino, hanno, da ormai cinquant'anni a questa parte, compiuto (e stanno tuttora compiendo), applicando con vigile attenzione le leggi di derivazione, l'analogia e basandosi sull'evoluzione semantica, un imponente e originalissimo lavoro, sì da rendere il Latino vivo capace di esprimere ogni realtà odierna. Il loro lavoro non è molto diverso da quello dei Comitati tecnicolinguistici, che ogni grande azienda ha, oggi, per battezzare in linguaggio moderno tutte le novità, soprattutto tecniche, della loro produzione.
     Ecco una breve scelta di questi neologismi:

l'automobile =  autocinetum
musicassetta =  phonocapsella
grissini =  panicilli
nave rompighiaccio =  navis glacifraga
sciopero =  operistitium (per analogia a solstitium)
carrozza ferroviaria =  carruca ferriviaria
i crakers =  quadrulae
i fumetti =  nubeculati libelli
la biro =  calamus sphaerulatus
le tagliatelle =  segmentulae
la roulotte =  domuncula vectabilis
il mitra =  manuballista
telegiornale =  telediurnum
calcolatore =  computatrum
la guida dei Touring =  libellus periegeticus
un pallone imparabile =  follis imprensabilis...
    Legge fondamentale di questi neologismi plasmati dai neolatinisti è che siano «translucidi», cioè immediatamente interpretabili e insieme siano di buon sapore Latino. Chi voglia avere un'idea dettagliata della questione dei neologismi, può sfogliare il Nuovo Vocabolario della lingua Latina, di J. Mir e C. Calvano (Mondadori, 1986) o anche il Lexicon recentis Latinitatis, 2 voll. (Editrice Vaticana, 1992) o anche prendere in mano qualcuna delle Riviste di Latino vivo (non ho ancora detto che il fervido moto per la rinascita dei Latino vivo è affiancato, già da qualche anno, da Riviste quali Vox Latina (tedesca), Latinitas (vaticana), Melissa (belga), gli articoli delle quali sono una sorprendente dimostrazione di come qualunque argomento, sia di vita antica, sia di attualità, possa essere oggi espresso in un linguaggio limpidamente accessibile ad ogni Europeo, che sia stato iniziato alla lingua Latina.

     Proviamo ora a riallacciarci al punto di partenza.
     Lo storico prof. Jacques Le Goff sostiene che, per dare unità culturale all'Europa, occorra anzitutto ampliare nelle scuole europee lo studio delle principali lingue di Europa.
     Chi venga, come me, dal mondo della scuola, sa però bene quanto sia arduo aggiungere nuove ore ai programmi attuali, o mutarne, anche solo in parte, la struttura.
     È certamente vero che ogni grande lingua europea è un formidabile veicolo di cultura, e ben venga uno studio almeno più accurato, se non più ampio, delle lingue nei vari ordini di scuole europei, ma qui mi pare che il problema non sia tanto conoscere molte lingue per accedere ai mirabili tesori culturali europei, quanto di avere, tutti, tra le mani, una lingua che ci permetta di intenderci con semplice chiarezza tra noi, abitanti di Europa, una lucida lingua veicolare, che, oltre a servire negli incontri e nelle conversazioni, permetta un'immediata semplificazione delle strutture (durante i Congressi e di stesura dei vari decreti approvati.
     Che il Latino colloquiale, o neolatino, come ormai comincia ad essere chiamato, Latino dalla piana struttura e arricchito dei necessari neologismi, possa davvero fungere da lingua comune per l'Europa, lo dimostrano alcune recenti esperienze.
     Dal 9 al 14 Settembre 1985, si tenne a Coimbra il VII Congresso do Grupo de Matematicos de expressao Latina, alla presenza di studiosi portoghesi, spagnoli, italiani, francesi, rumeni, dell'America Latina e del Giappone. Il prof Rodolfo Salvi, docente al Politecnico di Milano (e mio ottimo amico), tenne una relazione «sull'esistenza di soluzioni deboli periodiche circa le equazioni di Navier-Stokes».
     Alla relazione, fece precedere questa breve nota, preparata con me e letta scandendo le parole con lentezza e precisione: «Ego exponam meam demonstrationem lingua Latina, utique lingua latina planissima et crystàllina. Ego enim pro certo habeo linguam Latinam posse esse optimum et liquidum instrumentum communicationis inter omnes viros doctos non modo Europae, sed etiam exterarum nationum. At una condicione, ut sit non   l i t t e r a r i a,   id est non sit implicata et architectonica ut fuit lingua exquisita Auctorum Latinorum, sed sit   c o l l o q u i a l i s,   c a r t e s i a n a,   id est praedita dispositione recta et subitanea intelligibilitate. Debet enim sequi morem saeculi vicesimi; quod est saeculum evidentiae et velocitatis, saeculum quod hoc tantummodo postulat a scribentibus et a loquentibus ut sint illico et penitus intelligibiles.
     Il prof. Salvi mi riferì personalmente di essere stato ascoltato con molto interesse e che, nel dibattito che seguì, ad eccezione dei Francesi, i presenti giudicarono l'uso del Latino colloquiale una novità molto stimolante e di notevole utilità nei congressi scientifici.

     Chi legga il n. 24 di Melissa (la Rivista neolatina belga, cui ho già accennato - Editrice in Avenue de Tarvueren, 76 - 1040 Bruxelles), troverà la relazione del viaggio compiuto dal prof. Thomas Pèkkanen, dell'Università finnica di Helsinki, la cui recentissima traduzione in Latino del poema nazionale Kalèvala, è stata da lui personalmente presentata nel marzo dell'anno scorso, con un'orazione in limpido Latino colloquiale, a Bruxelles a un folto uditorio, nella Sede della Comunità europea.
     Partito in aereo da Helsinki, atterra a Milano, ove incontra i componenti della Sodalitas Latina mediolanensis, poi scende a Firenze, ove è accolto nel Circolo Latino fiorentino, indi ad Arezzo, ove tiene all'Università una conferenza sul Kalèvala Latino.
     Qualche giorno dopo, all'aeroporto di Budapest, è accolto da professori ungheresi e tiene all'Università un discorso riguardante i problemi postigli dalla traduzione Latina dei Kalèvala, a cui è seguito un animato dibattito. Il giorno dopo, nella città di Debrecen, ha luogo un secondo incontro presso il Seminario di Latino nell'Università L. Kossuth, alla presenza di un folto gruppo di professori. Di nuovo, dopo le orazioni ufficiali, si svolge una vivace discussione.
     Orbene, in tutti questi incontri in Italia e in Ungheria, il linguaggio che ha permesso a questi Europei di nazioni diverse di salutarsi, di intendersi tra loro, di discutere, è stato il Latino vivo colloquiale.

     Il dottor Rosario Casalone, ricercatore in genetica presso l'Università di Pavia, ricevette, il 29/IX/1987, il seguente biglietto, inviatogli dal prof. B. B. Wittwer, dell'Istituto di genetica di Magdeburgo (Rep. Dem. Ted.): «Humanissime collega, pergratum mihi feceris si exemplar tui recentis libri mihi miseris. Reverenter summas gratias agens et salutem tibi plurimam dicens, Wittwer».
     Ecco la limpida risposta del dottor Casalone: «Docte et humanissime collega, libenter libi mittam meam opellam, quam rogas, sperans eam tibi fore utilem. Laetor quod adhibueris linguam Latinam, quae optime esse potest instrumentum communicationis inter doctos variarum nationum. Spero fieri posse ut aliquando vel in Italia vel in Gemiania, invicem cognoscamus et coniungamus gratam amicitiam. Casalone».

     Se posso richiamarmi ad una mia esperienza, nelle Ferie Latine del 1982, tenutesi in Carinzia, a St. Georgen am Längsee, potei conversare e discutere per un'intera settimana con un giovane professore svedese, Ioannes Persson de Malmogia, nel nostro nitido Latino colloquiale: un nordico e un mediterraneo, che con le loro lingue patrie non avrebbero neppure saputo salutarsi, poterono così fraternamente parlarsi e perfettamente intendersi.

     Vorrei tornare un momento ad una delle frasi succitate dello storico Le Goff: «L'Europa può inventare il nuovo, anche per intendersi, per parlarsi. Ma deve basarsi sulla propria eredità.» È proprio quello che ci proponiamo noi, Latinisti vivi: diffondere in Europa un Latino che nasca da un geniale impasto di antico e di moderno, un Latino che da un lato ci allacci alla poderosa sorgiva culturale Romana, dall'altro ci renda idonei ad esprimere, in questo linguaggio mescolato di passato e di presente, ogni realtà moderna.
     Certamente la conoscenza delle grandi lingue europee ci permette di attingere agli splendidi tesori culturali delle singole nazioni, ma possedere un linguaggio comune sovrannazionale, col quale potersi comprendere sia nei congressi europei, sia nei contatti con Europei di nazioni con lingue meno diffuse, col quale poter redigere articoli e contributi culturali che siano immediatamente accessibili ad ogni abitante colto d'Europa, è certo un esaltante obbiettivo per ogni Europeo a cui stia a cuore l'unità non solo mercantile, ma soprattutto culturale, dell'Europa.
     Bisogna però subito notare che tutto questo fervore di iniziative, che sorgono un poco dovunque in Europa, a favore del Latino vivo, restano inadeguate se noi, suoi fautori, non ci proponiamo un importante e coraggioso obbiettivo: p e n e t r a r e   n e l l e   s c u o l e.
     Il Latino ha la fortuna di essere insegnato, e insegnato bene, in buona parte delle scuole d'Europa (e c'è da sperare che i politici italiani si accorgano presto dl delitto di lesa cultura, perpetrato togliendo il Latino dalle Medie, contro il sacrosanto diritto degli studenti italiani di essere iniziati a una delle più splendide fonti di cultura e di arte, e si sappiano muovere per reintrodurvelo), ma è ormai tempo che, con un vigoroso colpo di timone, si passi dall'insegnamento tradizionale, troppo astratto e troppo legato ai modelli letterari, a un insegnamento del Latino trattato come una lingua viva.
     Questo implica che fin dalla prima lezione, il professore sappia accortamente mescolare lingua patria e lingua Latina, sì che gli studenti odano finalmente parlare Latino e vengano pian piano iniziati a questa nuova eccitante esperienza. Ed è notevole quanto presto il professore (ne parlo con cognizione di causa), si senta, con segreta commozione, divenire un concivis Romanus, capace in breve tempo di esprimere, in un lucido e semplice Latino, le sue idee; non parlo degli studenti, a cui non par vero di divenire a poco a poco degli autentici adulescentuli Romani!
     E vorrei notare ai colleghi, a cui l'insegnamento del Latino in Latino appaia piuttosto complesso e audace, che noi, professori di Latino, siamo, a ben guardare, degli autentici lessici Latini viventi, tale è il cumulo di vocaboli e di costrutti Latini che conosciamo; tutta però questa imponente massa lessicale giace nelle nostre menti come assopita, confusamente mescolata insieme, priva quindi di quella rapida «velocità di comparizione» dinanzi alla mente e di qui alla bocca. È solo necessario un rapido e geniale esercizio (at de hoc alias) per destarla e per, diciamo così, sdipanarla, sì da poterla padroneggiare con crescente velocità e sicurezza.
     E dunque (mi rivolgo specialmente ai giovani colleghi) lasciatevi attrarre dal fascino del Latino vivo, e soprattutto trasfondetelo, questo fascino, negli studenti. L'uso del semplice e lucido Latino vivo servirà loro di efficacissima propedeutica per avvicinarsi, in un secondo tempo, ai Classici Latini, che sembreranno loro non più astrusi e lontanissimi Autori, ma concittadini di un'unica grande respublica Latina.
     E se prende piede, nelle scuole d'Europa, l'insegnamento del Latino come lingua viva, sarà posto un solido fondamento per raggiungere il grande obbiettivo di offrire all'Europa una lingua comune, che affratelli tutti i suoi figli, ne semplifichi i rapporti e insieme li renda idonei a riappropriarsi e a riapprofondire il grande retaggio Romano e Cristiano.

     Forse a qualche lettore piacerà leggere qui un limpido brano Latino colloquiale.
     Ecco la relazione di un derby Iuventus - Torino.

     Hodie est Dominica extraordinaria: magna pars Taurinensium relinquit domum et cetera negotia et affluit ad stadium: duae enim turmae (squadre) eiusdem urbis certabunt inter se maxima alacritate.
     Cum arbiter emittit sibilum initii, omnes graidus amplissimi stadii sunt iam referti «typhosis», qui emittunt dìssonum boatum, agitantes vexilla et sonantes corniculas.
     Per primum quartum horae, lusores
(i giocatori) procedunt velocissimi (sunt enim omnes vegeti viribus) et follis (il pallone) vel radit terram vel volat, propulsus modo ad unam aream portariam, modo ad alteram.
     Et ecce, fere transacta media hora lusus acris ac prementis, ala sinistra iuventina captat follem, quem ei perite
(abilmente) direxit medianus, evìtat duos defensores taurinianos, offert follem eleganti ictu tali (colpo di tacco) occurrenti medialae dexterae, quae rapido ac vehementi ictu pròicit follem in angulum portae, dum ianitor, etsi citissime insiliens, non valet nisi eum praestringere (sfiorare) digitis.
     Tònitrus ingens rèboat per stadium, dum auctor retis, currens huc illuc velut amens et pluriens iactans per aera brachia, vicissim ab uno et ab altero lusore iuventino cingitur brachiis et fervide basiatur, quasi peregisset gestum heroicum.
     Lusus iterum inchoatur, et dum iuventini nituntur praesertim defendere portam, et tantummodo raro irrumpunt in aream adversariorum velocibus incursionibus, athletae taurinarii pergunt
(continuano) rabida alacritate premere indefatigati contra rete adversariorum, trahentes secum etiam proprios defensores, ita ut saepe dimidium stadium maneat desertum et unicus conspiciatur, deambulans placide inter palos portae, manitor taurunianus.
     At integer globus iuventinus intentissime vigilat et rumpit quàmlibet
(qualsiasi) actionem adversariorum qui, licet crescenti impetu conentur, astutis traiectibus (passaggi) apparare occasionem reti, semper, veluti undae quae franguntur contra scopulos, frenantur et assidua tenacia repelluntur retro.
     Et ecce sibilus arbitri: prius tempus certaminis est transactum; athletae relinquunt stadium et Iuventini cursu, Tauriniani contra tardis passibus, recedunt in spoliarium.
     Initium secundi temporis: refecti
(ristorati) intervallo, athletae incipiunt velocem lusum, conantes Tauriniani Assequi paritatem, Iuventini autem, etsi non intermittentes cautam et ferream vigilantiam suae portae, parati ad fruendam quamlibet occasionem ut augeant numerum retium.
     At improviso, medius aggressor taurinianus, potitus
(impadronitosi) folli, ingreditur in aream «rigoris» et callida simulatione (finta) se èxpedit a mediano sinistro iuventino, qui conatus erat eum cohibere, sed in ipso momento quo se àpparat ad proiciendum follem in rete, ab accurrente defensore iuventino deicitur humi (è fatto cadere) apertissima supplantatione (sgambetto). Sibilat arbiter: calx rigoris.
     Super totum stadium cadit repente ingens silentium, et dum athletae se glomerant taciti extra aream rigoris, taurinianus «rigorista» (ita appellatur athleta qui excellit peritia proiciendi follem in rete adversariorum) deponit follem in circulo, circumscripto lineola alba, inde retrocedit lente aliquot passus, postea velocitate crescenti irruit in follem et, simulata declinatione corporis in partem sinistram, eum impingit ictu veliementi in angulum dextrum. G o a L !! Unum contra unum!!!
     Exoritur a typhosis taurinianis immanis boatus, dum incipiunt agitari phrenetice vexilla et explodi capsulae pyricae.
     Ergo certamen redit ad paritatem! Dum autem in cavea stadii tumultus pergit effrenatus, athletae redintegrant festinanter lusum, incitati novo impetu et alacritate Tauriniani, impulsi acriore fervore Iuventini.
     At dum follis transit velociter ab uno ad alterum lusorem et dum premitur et obsidetur modo una, modo altera porta, intentissima vigilantia defensorum impedit quòminus follis possit pròici in rete.
     Et iam propinquat finis secundi temporis, cum follis impingitur incaute a lusore taurinensi ultra lineam extremam stadii, ideoque decernitur calx anguli pro Iuventinis.
     Volat follis, apte impulsus ab ala sinistra et inclinatur in proximitate portae, ubi densantur athletae utriusque turmae; inter ceteros, agili saltu emergit medianus iuventinus, qui vehementi et callido ictu capitis percutit follem eumque impingit «imprensabilem»
(imparabile) in superiorem angulum dextrum portae: g o a l !
     Hac vice, totum stadium explodere videtur: clamant insanientes laetitia thyphosi iuventini, se invicem complectentes
(abbracciandosi) et quassantes sua vexilla et vexillula, dum contra una pars typhosorum taurinianorum rumpit in exsecrationes et blasphemias, altera vero, quasi percussa fulmine, assidit muta in gradibus, velut si eos perculisset extrema calamitas.
     Et ecce, post pauca minuta, sibilus finis.
     Omnes athletae repente consistunt, inde contendunt ad spoliarium, dum interea thyphosi iuventini, gestientes irrefrenabili gaudio, invadunt pacifice stadium atque turmatim iactant ad aerem vexilla et elatis vocibus celebrant victoriam turmae cordis.